giovedì 25 novembre 2010

Fino all'ultimo lembo di carne


Mi accendo una sigaretta, odio questo vizio, forse è l'unico che ho che mi infastidisce, che mi fa preoccupare. Mi sistemo la cravatta nera sulla mia camicia bianca stirata di fresco, mi attende una serata interessante con il mio ospite, è nel salone, mi sta aspettando. Lo raggiungo, gli sorrido, gli stringo la mano, “Accomodati pure!”, gli indico la sedia, il tavolo è già apparecchiato: me ne sono occupato personalmente, così come delle pietanze per la cena.
Mentre attendiamo che il mio collaboratore domestico ci porti l'entrèe, un delizioso sformato di zucca su una salsa di grana, con salvia abbrustolita e una riduzione al balsamico, verso un calice di bollicine al mio commensale, un Franciacorta riserva che ho fatto arrivare proprio per l'occasione.
“Bon appetit!”, lo guardo compiaciuto, attendendo il suo giudizio sulla mia cucina, prende una porzione con la forchetta argentata e la intinge nella salsa, è un ragazzo di gusto, abituato alla buona tavola: non nascondo la felicità per la mia ottima scelta. Mentre gusta il suo boccone mi guarda, d'un tratto solleva il calice, “I miei complimenti, eccellente.”, sorrido, “Oh, mio caro , mi rallegra questo tuo gradimento, sapevo che avresti apprezzato!”, ora anche io posso iniziare la mia cena.
Durante la cena lui mi racconta alcuni avvenimenti della sua esistenza, quasi debba fare colpo su di me, la cosa mi indispettisce, ma lo lascio fare, non si nega un po' di gloria, un po' di voglia di raccontarsi, soprattutto a chi sta per morire.
Lo ascolto con calma, la nostra cena prosegue, brindiamo ancora, probabilmente sarà l'ultimo bicchiere per questo ragazzo, lui non lo sa, ma in questo vino pregiato c'è una droga, contro la quale io mi farò un'iniezione a breve, mentre lui cadrà in un sonno profondo.
Giusto il tempo di ringraziarmi per il cibo delizioso ed ecco il suo corpo che scivola lentamente dalla sedia al parquet del mio appartamento. Mi alzo dalla mia sedia, distendo i muscoli e vado a scegliere gli strumenti per la mia arte: penso che prenderò i miei coltelli più pregiati, è raro che io li usi, questa sera ho voglia di fare le cose in grande.
Quando rientro nel salone lo vedo completamente inerme, un ghigno di soddisfazione si stampa sul mio viso, decido di spogliarlo per poter lavorare meglio sul suo corpo. La sua pelle abbronzata e i suoi muscoli mi fanno provare invidia per la sua fisicità, prendo un bisturi ben affilato e inizio un'incisione sui muscoli delle gambe e nella zone tendinee delle ginocchia in modo da inibire ogni suo possibile movimento, ogni sua possibile velleità di fuga.
Ogni volta che uccido seguo sempre lo stesso iter, sono un abitudinario in ogni cosa, nei miei omicidi c'è sempre uno schema ricorrente, una firma, ma con mia evidente sorpresa nessuno li ha mai collegati fra loro, nessuno mi ha ancora scoperto, o sospettato; questo ragazzo sarà la mia vittima numero trenta: sono molto orgoglioso del mio lavoro.
Uccido ragazzi giovani, muscolosi, nel pieno della forma fisica, soprattutto per l'odio che nutro nei confronti dei corpi perfetti e sani, non come il mio: cagionevole, fragile, anche se sono dotato di una forza che sorprende spesso anche me stesso.
Il lavoro con le sue estremità inferiori è terminato, pulisco il sangue che sgorga copioso, ripongo il bisturi nella sua preziosa custodia, la cena non mi ha ancora saziato, prima di finire decido di fare il grande salto, quello che non ho mai fatto, penso per una naturale inibizione umana, i miei occhi fissano i suoi fianchi: oso? Posso osare? In questo momento, come sempre, mi sento come Dio, penso che Dio non possa negarsi nulla, quindi decido di osare, mi nutrirò di lui.
Il mio sguardo si trasforma, lo vedo riflesso nello specchio su una parete del salone, i miei occhi luccicano di vizio e perversione, mi avvicino lentamente, poi con uno scatto deciso affondo i miei denti nella sua carne, con forza, con violenza, ma da questo punto in poi nulla andrà come come sarebbe dovuto andare.
Il ragazzo urla, si è svegliato, qualcosa con il mix di droghe che gli ho somministrato non ha funzionato, sono sorpreso, spaventato: per la prima volta ho fatto un errore.
“Cosa mi stai facendo? Sei un pazzo!!” è ovviamente sconvolto, io sono al suo fianco, bloccato, incapace di una reazione, si è rotto lo schema e non me ne rendo ancora conto, il ragazzo prova ad alzarsi ma si rende subito conto della situazione delle sue gambe, devo subito alzarmi e prendere la mia pistola, devo ucciderlo immediatamente o sarò perduto.
Mentre provo ad alzarmi un colpo violento mi prende in pieno viso, la mia vittima mi ha sferrato un destro potente e ben assestato, cado all'indietro, stordito, la custodia grande dei miei coltelli cade a terra vicina a lui, mi lancio subito a recuperarla prima che lui possa estrarne uno: troppo tardi. Ne brandisce uno, uno dei più letali, la situazione precipita, lottiamo, ma lui ha la meglio, un fendente mi colpisce al collo, il sangue scorre sui miei vestiti, la mia ira è incontrollabile, riesco a colpirlo e a stordirlo per un attimo, una sciarpa gialla attira la mia attenzione: è del ragazzo. E' la mia unica possibilità, gliela stringo al collo, ma lui si riprende, la nostra lotta continua, furiosa per alcuni istanti, finché finalmente cede, l'ultimo respiro lascia il suo corpo per sempre.

“Il resto è storia recente, caro commissario!”, l'uomo di fronte a me ha ascoltato pazientemente e in silenzio la mia ricostruzione dei fatti, ho deciso di confessare quando ho capito che non c'era più modo di uscirne, quando è stata mostrata quell'unica prova schiacciante, quell'oggetto che sancirà la mia condanna: quella dannata sciarpa gialla.
Quando ho gettato il corpo del ragazzo nel cassonetto ho commesso il fatale errore di pulirmi il sangue dal collo con quella sciarpa, con l'arma del delitto, purtroppo avevo perso lucidità nella lotta feroce di qualche istante prima, già intuivo che sarei stato vicino alla fine, ma non sono stato in grado di porvi rimedio. Forse ho voluto che mi trovassero, che capissero chi fossi e cosa avessi commesso in questi otto anni: ho confessato tutti i miei trenta omicidi, l'ubicazione dei poveri resti delle mie vittime e le modalità dei loro omicidi. Mi sono arreso, con piacere, a questo commissario così intelligente e scaltro, certo, ma anche aiutato da due miei grossolani errori.
“Direi che la nostra chiacchierata mio caro commissario è finita, le ho confessato tutto, quindi ora vorrei conferire con il mio legale e fumarmi una sigaretta in santa pace.”, lui mi guarda interdetto, “Scusi, ma crede di essere nella condizione di dettare legge? Non scherziamo, voglio sapere il perché? Mi dica cosa l'ha spinta a commettere queste brutalità!”, chiudo gli occhi e sospiro, “Commissario, avevamo iniziato così bene e ora lei mi offende?! No, ora non avrà più una mia parola fino all'arrivo del mio legale, sono spiacente!”, se ne va sbattendo i pugni sul tavolo.
Sono solo nella stanza degli interrogatori, mi accendo una sigaretta, quell'uomo non sa di aver commesso un errore imperdonabile.
Finisco di fumare e guardo la sciarpa gialla davanti a me, mia condanna e mia salvezza. Troveranno il mio corpo impiccato al termosifone, concludere la mia vita in questo modo mi dispiace, ma al momento non vedo vie d'uscita, pagherò i miei errori, ma non è della giustizia degli uomini che vado in cerca.

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